La scoperta della corsa e il cambio di paradigma.
La scoperta della corsa e il cambio di paradigma.
La storia, se mi conosci, la saprai già. È quella che ho raccontato nel libro “Il Cercatore”, edito da Ultra Sport. La storia, la mia, di un principiante della corsa, che nel giro di pochi mesi diventa un ultrarunner. .
In questo articolo vorrei raccontartene un pezzo, il primo. Di come ho iniziato a correre da zero, e di quanto la corsa mi abbia trasformato. Di quando quasi per gioco, entrai nel mondo del running per diventare dopo pochi mesi e dopo i quarant’anni, un ultrarunner.
Te lo racconto perché vorrei farti sapere che la corsa mi ha trasformato. E, forse, potrà cambiare anche te.
Ma più che darti consigli, ti racconto la mia esperienza, perché sono certo che in qualche modo possa aiutarti.
Perché è dall’esperienza che si impara, prima di tutto. Ma è anche dal confronto con gli altri. E io sono aperto al confronto, e con trasparenza ti prometto che in questo spazio racconterò – soltanto – quello che ho vissuto sulla mia pelle.
Sono la somma di tante cose, esperienze, incontri, eredità familiare, culturale, storica. Sono soprattutto la somma dei miei errori.
Mi sono sempre considerato uno sportivo. Ho praticato per più di vent’anni il rugby a livello agonistico. Il rugby non è solo uno sport, è un approccio alla vita. Quello di chi non ha paura di picchiare il muso. Potrei chiamarla incoscienza, o – e ve ne ho già parlato ne “Il Cercatore” – l’approccio ignorante. Ti butti nella mischia, senza pensarci troppo.
Per vent’anni lo sport per me è stato sinonimo di gioco, squadra, botte e terzo tempo. Ed è solo quando mi hanno tagliato fuori dal campionato, perché a 41 anni avevo oltrepassato i limiti di età, che ho dovuto dedicarmi ad altro.
Troppo vecchio per la federazione di rugby, ma non per una nuova svolta.
Per il cambiamento è sempre il momento giusto.
Perché è proprio appena varcata la soglia dei quarant’anni che ho scoperto il podismo. La corsa non come allenamento a qualcosa, ma come obiettivo. La corsa in sé.
Mi era sempre sembrato noioso correre attorno al campo. Poi, quando ho dovuto lasciare il rugby alle spalle, ho provato a correre per il gusto di correre. Ma così, per scherzo. Perché – diciamocelo – il fitness era diventato trendy e quindi…
Quindi comincio dalla Stramilano, che erano 15 km. Pochissimi per un ultrarunner, impegnativi se hai cominciato a correre qualche giorno prima della gara.
È la mia prima gara, e vedo gente che corre forte, senza neanche troppo sforzo.
Mi informo, leggo riviste specializzare di running, mi alleno spesso. Consolido i km nelle gambe, aggiungo sempre un pezzetto. Dai 15 km passo ai 30 km, ogni weekend mi impegno in gare che mi costringono a mantenermi costante nell’allenamento. Nel giro di tre mesi sono sui ranghi di partenza della mia prima 50 km. Quasi di punto in bianco divento un podista, e non ho la più pallida idea di quanti traguardi avrei raggiunto negli anni a venire, quanti faticosissimi chilometri sarebbero scivolati sotto le suole, al ritmo dei mei passi.
Correre mi piace, mi piace essere solo con me stesso. Nella mia vita chiassosa ero sempre stato distratto da una miriade di cose da fare. Non mi era mai capitato di concentrarmi sul mio respiro.
È stato un cambio di paradigma.
E da tutti i punti di vista, non solo quello della scoperta del corpo, ma anche, per esempio, sotto il profilo delle motivazioni.
Nei giochi di squadra puoi sempre accampare una scusa: se qualcosa non va, è colpa
del compagno, dell’arbitro, del terreno. È facile trovare delle giustificazioni, e questo ti impedisce di riconoscere gli errori. Che è un po’ quanto accade a livello macroscopico se consideriamo la società in cui viviamo: siamo in tanti, la responsabilità è condivisa, quindi non è di nessuno. Non c’è mai uno che alzi la mano per prendersela.
Quando sei solo, invece, non puoi raccontartela, la responsabilità di quello che fai è solo tua. Tutti i risultati che ottieni sono frutto dei tuoi sforzi, ci sei tu e basta. È una condizione ideale per lavorare al miglioramento personale e imparare l’autodisciplina.
Con la corsa mi sono focalizzato sul funzionamento del mio organismo; non c’erano più il
gioco e il risultato della partita a occupare i miei pensieri.
Potevo sentire ogni parte del corpo orientata ad andare avanti:
fasci di muscoli, ossa, movimento, calore, tutte sensazioni che non avevo mai ascoltato.
E mentre mi concentravo su me stesso, i sensi si acuivano e diventavo più percettivo anche rispetto al contesto in cui mi trovavo: il sole, la pioggia, la temperatura, gli odori. Tutto pareva più intenso.
Quando inizi a correre per il piacere di farlo, scopri di essere un meccanismo fantastico, nato e costruito per fare fatica. Ti si apre un mondo. E io, quando mi affaccio a un nuovo mondo, mi documento e approfondisco, sperimentando su me stesso quello che ho sentito e letto.
Le difficoltà fanno venir fuori la verità delle persone. Ogni situazione negativa ti dà la possibilità di cambiare. Io ero incazzato quando avevo raggiunto i limiti di età nel rugby. Feci anche ricorso in Federazione, perché mi sentivo idoneo. Eppure, a posteriori, rimpiango di
aver tardato tanto a dare una svolta alla mia vita. Ho giocato ventidue anni a rugby, è stato bello, ho stretto amicizie profonde, ma dieci anni in meno sarebbero stati più che sufficienti. E avrei avuto dieci anni in più per scoprire mondi che non conoscevo.
La vita è una scelta continua. Puoi decidere se rimanere sulla tua strada e ignorare la miriade di sentieri che si dipanano in ogni direzione, oppure li puoi imboccare, per vedere dove ti portano. Di una cosa puoi essere certo: imparerai sempre qualcosa.
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